“Tante cose cominciano e forse finiscono con un gioco”.
Oggi ti dico Ciao con l’incipit di un racconto di Julio Cortázar che mi è molto caro: si intitola Disegni sui muri e lo trovi, dedicato all’artista Antoni Tàpies, nella raccolta Tanto amore per Glenda.
Il racconto l’hanno trascritto per intero qui; io mo ti dico due cose cercando di non sciuparti la sorpresa dalla lettura integrale.
Di che gioco parla la voce narrante?
Siamo in Argentina, negli anni della dittatura di Videla. Una situazione distesissima in cui dopo una cert’ora guai a te se ti pescano fuori casa, e non ne parliamo se ti acchiappano a fare cose pericolose tipo affiggere manifesti o scrivere sui muri: ti fanno un mazzo tanto. Quando si sentono ispirati, ti fanno pure fare un viaggio in aereo con tanto di tuffo in mare aperto.
E questo tizio del racconto gioca sul filo della minaccia, gli piace fare in giro disegnini scemi, senza una valenza politica, solo perché sì, perché gli piace vedere quelli della municipale, grandi e grossi, smadonnare mentre strofinano una macchia di colore da un muro.
“In città ormai non si sapeva bene da che parte stesse veramente la paura; forse per questo ti divertiva dominare la tua e scegliere ogni tanto il luogo e l’ora adatti per fare un disegno”.
Ogni tanto gli scappa pure di dire Hey, non ce lo possiamo dire ma siamo in tanti, stiamo vicini come possiamo:
“Guardando da lontano il tuo disegno, potevi vedere che la gente vi gettava un’occhiata passando, nessuno naturalmente si fermava, ma nessuno anche si tratteneva dal guardare, e il disegno era forse soltanto una rapida composizione astratta a due colori, il profilo di un uccello o due figure abbracciate. Una sola volta hai scritto una frase, con gesso nero: Anche a me fa male. Non durò più di un paio d’ore, e quella volta fu la polizia in persona a farla sparire”.
E poi, un giorno, compare accanto al suo scarabocchio “un tocco particolare, una predilezione per i colori caldi”. Qualcuno si intreccia ai suoi disegni.
“Cominciò un tempo diverso, più intimo, più bello e insieme denso di minacce”.
E questi due giocano così. Senza incontrarsi mai, imparano a decodificarsi, inventano modi di dirsi le cose in un linguaggio comune che costruiscono un segno alla volta e che poi spariscono dai muri grigi in tempi sempre più rapidi.
Di quest’altra persona a un certo punto vediamo dei dettagli fisici, i capelli neri tirati da una mano inguantata, i pantaloni blu scaraventati dentro una camionetta.
“Lo sapevi bene, avresti avuto tempo d’avanzo per immaginare i particolari di quanto certamente stava succedendo alla centrale; in città queste cose poco a poco trapelavano, la gente sapeva il destino dei prigionieri, e se qualche volta ne rivedeva qualcuno, avrebbe preferito non vederlo, avrebbe preferito che come la maggior parte si fosse perso in quel silenzio che nessuno osava rompere”.
Che cavolo di modo di giocare è, se ci si deve fare così male.
Però l’istinto che guida verso la gioia è troppo più forte dei muscoli messi in mostra per fare paura. E i disegni, in qualche modo, non si fermano.
Lo facciamo sbocciare qualche colore che rompa il grigio?
Prima di lanciare il prossimo gioco, però, ti racconto da dove ho preso l’idea.
La prima edizione di Parole di Lulù è nel 2010: a tre mesi dalla perdita della figlia, Niccolò Fabi organizza un concerto in un parco enorme. Il giorno è quello del compleanno della sua Lulùbella e in mezzo al prato ci sono insieme artisti, famiglie, musicisti, bambini con la faccia pelosa di zucchero filato, ragazzi che si baciano, è una grande festa accompagnata da palloncini colorati e una raccolta fondi per costruire un ospedale pediatrico in Angola.
Quali sarebbero le ‘parole’ che danno il titolo alla manifestazione? Quelle della canzone di Mina, la preferita della bimba che stava imparando a cantarla, e tutte quelle, dette e trattenute, davanti a un evento di questa portata, che Fabi commenta così:
In questo periodo la frase più frequente che sentivo da quelli che ci avvicinavano era: non ci sono parole. E invece ci sono eccome, hanno un’importanza enorme, ogni singola parola che ci è stata detta, anche quella smozzicata o solo intuita, ci ha aiutato tantissimo. Il dolore se non è condiviso diventa rabbia e disperazione. Noi siamo musicisti: un concerto per noi è il modo più diretto per parlare e stare insieme. (…) Quello che è accaduto è stato talmente forte che doveva scatenare qualcosa di altrettanto straordinario: il dolore condiviso si trasforma, genera forza.
Il 2021 c’è stata l’ultimissima edizione di questo incanto collettivo: una giornata piena di giochi, spettacoli, musica e, per l’ultimo concerto, con l’obbligo di mantenere la distanza di un metro – sì, era proprio quel momento di riaperture strane e confuse – ogni singolo posto era contrassegnato da una piantina in vaso, una viola del pensiero che poi è rimasta in dono a chi l’aveva trovata.
La mia ha fatto un po’ di su e giù in giro per l’Italia insieme a me e poi è rimasta a casa di un’amica: avevo bisogno di raccontarne la storia e lasciar andare le emozioni di quel giorno, le lacrime dentro la festa o la festa dentro le lacrime, non l’ho mai capito, non lo capisco mai veramente.
Ma veniamo a noi, che oggi sono stata lungagnona. Grazie per la pazienza.
E allora, fazzoletto in mano, scerea e prea, anzi, scerea e conta: ti suggerisco un gesto d’amore, un gioco per abbassare per un attimo le fiamme del Purgatorio che abitiamo. E poi mi piacerebbe che mi raccontassi com’è andata.
Lo sappiamo che il Blue Monday nasce da una trovata pubblicitaria. Però. PERÒ.
Vuoi mettere questa cosa del fare quelli che hanno capito tutto e sanno che Babbo Natale non esiste e nemmeno il Blue Monday, quando invece ti viene data l’opportunità di frignare un po’ perché sì, perché oggi è quel giorno là? Oggi si può. Così come a Natale siamo tutti più buoni, oggi possiamo permetterci di essere meno sfavillanti, Non sono io, è che siamo nel giorno più triste dell’anno.
Qualcuno, potendoselo riconoscere, rischia di sentirsi molto molto giù.
E poi, oh, ironicamente oggi è il giorno dell’insediamento del più stereotipato dei cattivoni della Marvel alla Casa Bianca. Direi che a prescindere dalle vicende personali ne abbiamo per essere parecchio tristi, per usare un eufemismo.
Oggi compreremo una piantina.
Non chissà cosa, eh. Una di quelle che si trovano a pochi euro da qualsiasi fioraio, pure al supermercato. E ci mettiamo dentro un biglietto.
Se sei delle persone che in privato mi hanno detto che faticano coi giochi perché un po’ si vergognano a scrivere, ti suggerisco: puoi metterci una cosa tipo “Se hai bisogno di un po’ di colore, questa piantina è per te”. Non dobbiamo essere Cortázar per dare una sfumatura diversa a questo lunedì blu! Però puoi scrivere pure “Anche a me fa male”, come nel racconto. Se invece scrivere ti piace, fai tu secondo quello che ti senti.
Poi questa piantina lasciala per strada: non sai chi la prenderà e questa persona non saprà niente di te, ma le avrai cambiato la giornata; senza troppe sovrastrutture, avrete condiviso un momento intimo e speciale.
Se ti va di raccontarmi che succede, già sai: puoi rispondere alla mail e ti leggo solo io, oppure lasciare un commento cliccando sul pulsante qua sotto.
Se non mi scrivi tu prima, ci risentiamo fra una settimana.
Abbi cura di te e dei tuoi colori,
Sabrina
PS: A proposito di lacrime nella festa e festa nelle lacrime. Ci sono persone che a una certa notizia di cessate il fuoco hanno festeggiato con una gioia così enorme e disperata che io non lo so un cuore umano come possa contenerla:

Questo è IL gioco che mi serviva oggi, anche se è martedì e non lunedì. Grazie Sabrina per tutte le puntate della newsletter uscite fino a qui e per tutti i gesti di gentilezza e cura che mi fai venire voglia di seminare intorno a me. Leggerti è un grande regalo, grazie davvero a te (e avanti così).
Dolce e intenso. Avvincente nel suo sviluppo e nel suo ritmo lento e veloce. Brava Sabrina Silvestri. Ma non è una sorpresa. Giampaolo