Spremere bellezza dalla disperazione
Perfino il tuo dolore potrà apparire poi meraviglioso
Senti, ma tu ti senti artista? E quanto? Te lo dico io: lo sei, e pure assai.
No, perché qua uno sta sempre a pensare a Picasso e compagnia cantante, un fatto elitario che solo pochi eletti capiscono e ancora meno persone sono in grado di ‘fare’, qualsiasi cosa voglia dire (approccio in generale alla cultura che, se ci scordassimo, sono sicura che risolverebbe un sacco di problemi… ma vabbè). Ed è un peccato, perché così poi rischiamo di perderci una cosa bella e molto importante: l’arte è semplicemente un’esperienza, l’esperienza personale, unica, dell’essere umano immerso in un atto creativo. Generare idee, fare materialmente cose è un atto creativo, ma lo è anche fruire di ciò che ha creato qualcun altro: l’incontro fra te e questo qualcosa genererà altro ancora, che cambia te e l’ambiente in cui questo incontro è avvenuto; quello che rende artistico un atto è l’idea di stare agendo per qualcuno, anche mentre cucini.
Alcuni piaceri possono verificarsi per contatto e stimolazione casuale; tali piaceri non sono da disprezzare in un mondo pieno di dolore. Ma felicità e gioia sono un altro tipo di cose. Esse nascono per una soddisfazione che arriva fino alle profondità del nostro essere – soddisfazione che è adattamento del nostro intero essere alle condizioni dell’esistenza. Nel processo del vivere il raggiungimento di un periodo di equilibrio è al tempo stesso l’avvio di una nuova relazione con l’ambiente, che porta con sé il potenziale di nuovi adattamenti da realizzare lottando. Il momento del perfezionamento è anche il momento in cui si ricomincia. Ogni tentativo di perpetuare al di là dei suoi estremi il piacere che si raggiunge nel momento della soddisfazione e dell’armonia, costituisce un isolamento dal mondo. Quindi esso rivela abbassamento e perdita di vitalità. Ma, attraverso le fasi della perturbazione e del conflitto, si pone qui la memoria inveterata di una soggiacente armonia, il cui senso tormenta la vita come il senso di essere fondata su una roccia.
E questo è John Dewey, con un saggio che all’università ho amato: Arte come esperienza.
Detto ciò, appurato che quindi pure tu fai un sacco di arte senza manco saperlo, c’è stato un insegnante di Kurt Vonnegut che su quello che fanno gli artisti ha detto cose molto belle. Vonnegut ha raccontato, di questo prof e di uno zio molto speciale, durante un discorso che puoi recuperare per intero dentro la raccolta Quando siete felici, fateci caso:
«Cosa fanno gli artisti?» Io farfugliai qualcosa. «Fanno due cose», disse lui. «Primo, riconoscono che non possono rimettere in sesto l’intero universo. Secondo, fanno sì che almeno una piccola parte sia esattamente come dovrebbe essere. Un mucchietto di argilla, un rettangolo di tela, un pezzo di carta o quello che sia». Tutti noi abbiamo lavorato tanto e bene per far sì che questi momenti e questo posto siano esattamente come dovrebbero essere.
Come vi ho raccontato, io avevo uno zio cattivo di nome Dan, che diceva che un maschio non è un vero uomo finché non è andato in guerra. Ma avevo anche uno zio buono di nome Alex che, nei momenti in cui la vita era più piacevole – magari anche solo per una caraffa di limonata bevuta all’ombra – diceva: «Cosa c’è di più bello di questo?» E lo stesso dico io del risultato che abbiamo raggiunto qui oggi. Se mio zio non l’avesse detto così spesso, qualcosa come cinque o sei volte al mese, forse non ci saremmo soffermati a notare quanto può essere gratificante a volte la vita. Magari il mio buon zio Alex continuerà a vivere in qualcuno di voi che vi laureate qui quest’anno se, in futuro, ogni tanto vi soffermerete a dire ad alta voce: «Cosa c’è di più bello di questo?»

Sulla questione del passaggio dall’Io al Noi, ci sono alcune cose che continuano a macinarmi nel discorso di Han Kang quando ha ricevuto il Nobel per la letteratura; lo trovi in traduzione con il titolo Nella notte più buia il linguaggio ci chiede di cosa siamo fatti, ma sta pure aggratis qui, in inglese.
Kang racconta di come, durante un trasloco, abbia ritrovato nel ripostiglio di casa sua una scatola piena di vecchi diari, fra cui alcune poesie che aveva scritto a otto anni. Una se l’è tenuta da parte, perché le risuonava come se avesse ancora qualcosa da dirle a distanza di quarant’anni, e fa così:
Dov’è l’amore?
Nel tic-toc del mio cuore.
Cos’è l’amore?
È il filo d’oro che unisce i nostri cuori.
Sempre nel discorso, fa un excursus dei suoi romanzi, delle motivazioni che l’hanno portata a scriverli e del percorso umano che ha fatto da uno a un altro, e poi dice:
Nel libriccino che ho ritrovato dentro la scatola da scarpe a gennaio scorso, la me stessa del 1979 si poneva due domande: Dov’è l’amore? Cos’è l’amore?
Invece, fino all’autunno del 2021, quando è stato pubblicato “Non dico addio”, ero sempre stata convinta che le domande chiave alla base del mio lavoro fossero altre: Perché il mondo è così pieno di violenza e dolore? E come può, allo stesso tempo, essere di una tale bellezza?
A lungo ho creduto che la forza motrice della mia scrittura nascesse dalla tensione e dal conflitto tra queste due domande (…). Ma due o tre anni fa cominciai a dubitarne: davvero avevo cominciato a interrogarmi sull’amore – e sul dolore che ci accomuna – solo dopo l’uscita di “Atti umani”, nella primavera del 2014? E se invece tutte le mie domande, dal primo romanzo fino al più recente, avessero sempre riguardato, al livello più profondo, l’amore? È questo, il Leitmotiv più antico e basilare della mia vita?
L’amore si situa, insomma, in un luogo intimo, “il mio cuore”. E la sua essenza è un “filo d’oro che unisce i nostri cuori”.
È in questo gioco fra ciò che è nascosto in profondità vertiginose e ciò che possiamo mettere in comune, al servizio del bene degli altri, che forse possiamo recuperare, per dirla con Stig Dagerman, la capacità di spremere bellezza dalla disperazione.
Poche parole mie e tante di altri, a sto giro; volevo proprio condividere con te delle cose molto belle che sto leggendo e che un pochino mi aiutano a mantenere la bussola in questi tempi strani. Per le mie chiacchiere ci sarà tempo, i tuoi preziosi racconti invece sono sempre i benvenuti.
E allora, fazzoletto in mano, scerea e prea, anzi, scerea e conta: ti suggerisco un gesto d’amore, un gioco per abbassare per un attimo le fiamme del Purgatorio che abitiamo. E poi mi piacerebbe che mi raccontassi com’è andata.

Facciamo esattamente questa cosa qua. Un foglio così, da attaccare da qualche parte per strada, pieno di colori e punti esclamativi, con una parte che è un messaggio che rimane affissa per tutti e in basso dei pensieri che possano essere strappati e portati con sé da sconosciuti passanti, qualcosa di piccolino che regali una riflessione o un sorriso. E che sia bello per te farlo, che ti diverta pensare a cosa scriverci e disegnarci, e che ti renda felice guardarlo una volta finito.
Riappropriamoci dell’artista che abbiamo abbandonato quando hanno cominciato a dirci che quello che facevamo non aveva valore, del diritto a pasticciare e godere dei nostri scarabocchi tutti colorati.
Io penso che userò una poesia di Wislawa Szymborska, non so ancora quale ma è un periodo che continua a tornarmi in mente e rileggerla, anche regalarla dove lascio pezzettini di cuore per cui non trovo parole, mi fa tanto bene. Sceglierò con cura i versi, li dividerò sulla parte bassa del mio foglio e taglierò la carta in striscioline in modo che ognuno potrà prendere per sé quello che gli risuona di più.
Tu vedi un po’ se e come lo vuoi fare; se poi me lo racconti, rispondendo a questa mail o lasciando un commento qua sotto, sai che mi fai sempre contenta.
Abbi cura di te e dei tuoi pasticci tutti colorati,
Sabrina
Ps: il sottotitolo di oggi lo regala Domenico Modugno. Schiaccia Play e canta a squarciagola: Ti hanno inventato il mareeeeeee tu dici non ho niente, ti sembra niente il sole, la vita, l’amoreeeeee
PPS: quelli bravi dicono di lasciare traccia dappertutto delle cose belle che facciamo. Sui social l’ho raccontato, qui dentro no: per Fondazione Theodora, quella con cui vado in ospedale, ho girato uno spot pubblicitario. Il bravissimo e pazientissimo regista Luca Grafner e quei capoccioni pieni di idee stupende dell’agenzia Armando Testa, a fine riprese, continuavano a ripetere che non si sono mai divertiti tanto su un set. Che vabbè, in capa a me questa cosa è diventata Renée Ferretti che dice fra i denti “Cagna Maledetta”, però è vero pure che mi sono divertita un sacco anch’io. Ne sono molto contenta, perché credo che abbiano centrato l’idea che dentro le stanze si crei e si stia dentro un immaginario condiviso, non una proposta a caso per fare spettacolo, ma proprio qualcosa di unico che può esistere solo nello spazio di quel particolare incontro; te lo lascio qui sotto, se vuoi sbirciare pure tu.
Ma come hai raccontato bene tutto ciò Sabrina! Sottoscrivo ogni parola e ogni citazione. 💕
P.s. Che bel sorriso che hai in quel video!